La vita schiva. Il sentimento e le virtù della timidezza – Duccio DemetrioÈ noto che la mente umana

È noto che la mente umana è, in profondità e in superficie, catturata dalla logica degli opposti. La prova evidente di questa cattura è facilmente ricavabile dall’analisi del senso comune, della cultura dominante in un qualsivoglia contesto storico-culturale, a partire dalla distinzione tra Noi e gli Altri che promuove l’etnocentrismo e il pregiudizio nei confronti degli “stranieri”.
Barbaro è un termine coniato all’interno della più ricca cultura che un gruppo umano abbia mai prodotto, quella greca. È vero che la cultura greca, con Eraclito, ha riconosciuto anche l’intuizione della dialettica tra gli opposti. Ma tale intuizione, dovuta ad un genio solitario, è rimasta sterile sino all’Ottocento, allorché è stata ripresa da Hegel e Marx. Solo nel Novecento, infine, nella cornice della Teoria delle Catastrofi, essa è stata scientificamente formalizzata come legge del divenire della materia per cui ogni forma che essa assume implica un conflitto latente tra “forze” opposte.

Ci si può convincere della suggestione che la logica degli opposti esercita sulla mente umana non solo analizzando l’ideologia normativa proprio di ogni cultura, ma anche ripercorrendo la storia della religione, della filosofia, della letteratura, dell’arte e della scienza. Ovunque ci si imbatte in paradigmi che si succedono nel corso del tempo sulla base di ristrutturazioni critiche che avvengono sulla base di quella logica.

Questa premessa, che occorrerà altrove approfondire adeguatamente, serve ad introdurre il discorso su di un libro denso e suggestivo che, fin dal titolo, va controcorrente: contro la corrente dell’esperienza comune, che risulta sempre più appiattita da un banale conformismo, disinvestito da qualunque esigenza morale; contro il pregiudizio che, eleggendo a modello il modo di essere della maggioranza, riverbera un sinistro bagliore contro ogni forma di diversità (indigena o esotica); contro la psichiatria, che alimenta stoltamente l’opposizione tra normalità e anormalità, e, infine, contro le discipline psicologiche, che, ad un mondo pervaso da un inquietante malessere, offrono ricette di felicità prêt-a-porter che lasciano il tempo che trovano.

La vita schiva è un libro per pochi. I suoi contenuti e, per alcuni aspetti, lo stile stesso richiamano immediatamente Nietzsche: il genio solitario per eccellenza, che ha dedicato pagine sublimi alla necessità, intrinseca ad alcune anime, di prendere le distanze dal mondo, di raccogliersi nella propria interiorità e di sperimentare l’ebbrezza vertiginosa creativa della libertà assoluta che solo la solitudine promuove. È singolare, pertanto, e quasi incomprensibile che, nel profluvio di citazioni che caratterizzano il saggio, Nietzsche, al quale si deve, tra l’altro, l’aforisma più icastico sul bisogno di raccoglimento interiore (”Odio coloro che mi tolgono la solitudine, senza farmi compagnia”) non venga nominato una sola volta e risulti addirittura assente dalla bibliografia.

I pochi, a cui il libro esplicitamente si rivolge, sono coloro la cui esperienza, per mantenersi fedele a se stessa, deve sottrarsi alla suggestione della socializzazione forzata che caratterizza il nostro mondo, rifuggire dalle alienazioni imposte dalla vita sociale e rifugiarsi nella solitudine riflessiva e meditativa che promuove e alimenta l’individuazione.

I destinatari del libro e il suo impianto concettuale sono enunciati così nel prologo:

Questo libro si rivolge […] a una minoranza ben risoluta che persegua la solitudine come antidoto ai molti mali presenti, eventuali, prima o poi inevitabili. La proposta, va subito chiarito, si rivela più credibile se la raccoglie chi possa ammettere di avere odi aver avuto una vita non del tutto infelice o che abbia già saputo fare del dolore un’occasione di rinascita. Vivendola in piena consapevolezza e come esperienza di elevazione umana oltre che intellettuale o poetica. Ed è tale la vita che, per affetto ricevuto e restituito, ci consenta di allontanarci senza strazio eccessivo, rassicurati da un’interna ricchezza pur a un certo punto perduta. Rappresentata oltre che da una disposizione naturale alla riservatezza e a un bisogno fisico di starsene da soli, dalla attitudine ad aiutarsi attraverso un’intensa attività introspettiva. In altre parole, grazie alla fedeltà verso un pensiero riflessivo capace di oltrepassare le banalità. Per dedicarsi alla propria maturazione, a una incessante conversazione con gli eventi e le circostanze esistenziali che ci ripropongono interrogativi insolubili. Ma per questo capaci di scuotere la nostra pigrizia, di ostacolare l’assuefazione emotiva, l’acquiescenza intellettuale.

L’introspezione è figlia naturale, seppur non sempre prediletta, poi in seguito riabilitata (talvolta) negli anni adulti, della timidezza. La propensione dell’animo che ha ben chiaro che cosa sia un sano e civile diritto alla privacy. Da ribattezzare in quanto giusta causa e buona ragione individuale a poter dedicarsi senza troppi ostacoli a una vita vissuta all’insegna dei privilegi, ad altri incomprensibili, che il sentimento della timidezza è in grado di offrire. Se coltivato oltre gli aspetti istintivi e originati. Quando pur essa venga con coerenza e a ragion veduta non più combattuta, bensì inclusa nella propria storia. Perché la timidezza è punto di partenza e compagna di ogni propensione alla vita schiva; nell’incontro con la sua alleata elettiva, la solitudine. In quanto esperienza interiore, intima, indicibile a chicchessia, che conferisce pienezza e non desolazione a quanto sia dato vivere sui crinali dello sconforto.

La timidezza, in tal modo, si rende una forma di sensibilità verso il mondo e se stessi, del tutto alleata alla passione per la solitudine come desiderio. Da difendere, con spontaneità e da esibire in ogni circostanza, sia questa amorosa, famigliare, amicale e financo, in quanto forma trasparente di stare tra gli altri, professionale. Come una ricchezza dunque: per nulla come debolezza e passiva fragilità. Poiché, per molti, furono proprio le traversie del percepire e dell’agire timidamente la vita, non di certo le patologie fobiche e le sue derive morbose, a tributare un valore più alto a ciò che si rende emblema di una forza d’animo dotata di spirito di indipendenza. La timidezza, rafforzata dalle scelte solitarie, con la solitudine come iniziazione a essa, può essere in grado di rafforzare il carattere, le condotte, le decisioni che possono contare più di altre se, in una lizza tutta segreta dentro di sé, la posta in gioco sia il percepire (tra ragione e sentire) che si va adempiendo una crescita interiore come scopo esistenziale.

La scelta schiva, di cui qui si leggerà, non equivale pertanto a “schivare la vita”. A ritrarsi in una beata vacanza in qualche luogo disabitato, per inseguire la propria felicità in santa pace. Smettendo – di punto in bianco – di frequentare il prossimo. Occorre imparare a prenderne le distanze (proverbiale attitudine dei timidi) proprio nei momenti di maggiore pienezza dell’emozione di vivere insieme ad altri. Imparando a partire e a viaggiare da soli, a camminare senza alcuna compagnia, a chiudersi la porta alle spalle esigendo che nessuno disturbi, non per lavoro ma per pensare in libertà. Questi sono atti “topici”
. E poi: dormire da soli, gironzolare per strade sconosciute o per musei senza ciceroni di sorta, rifugiarsi in una biblioteca e, anche se non credenti, in una chiesa. Senza che per perseguire il proprio intento si debba scendere in un rifugio o in una trincea; dalla quale osservare – attraverso gli occhi altrui -. le miserie umane, credendosi protetti e innocenti. Si tratta, semmai, di riconquistare una possibilità di convivenza, seppur instabile, come tutto, tra il diritto a dire onestamente “questo sono io” e il resto del mondo, che si renderebbe più amabile, più evoluto, più assennato se intraprendesse i nostri esperimenti con la solitudine. A tale scopo, far esercizi schivi, nel vicino o nel lontano, per poco o per molto, ci aiuterà a capire quale sia il livello di tolleranza e di sopportabilità del nostro saper stare soli.

È una prova di maturità questa nell’interminabile iniziazione a essa.

Ammesso che l’inseguirla possa ancora aver un peso. La più ardua, specie se non ci congediamo dalla comunità dei nostri simili almeno di quando in quando per masochismo, per espiazione o per misantropia. Per qualche sofferenza psichica che la solitudine non può guarire. Piuttosto per iniziarci, in questa libertà privilegiata già di per sé rara e non comune, a qualcosa di inusuale, che riserva sempre sorprese, che non interrompe anzi prolunga la nostra autoeducazione. Quando il compimento della nostra storia di formazione inizia proprio quando ci chiediamo se siamo in grado di diventare maestri di noi stessi. Non soltanto esploratori dei nostri enigmi. Sapendo ormai bene quel che vogliamo da scelte controcorrente, anticonformiste, eccentriche, incomprese.
pp. 23-25

“Occasioni e forme del sentire” (p. 33), timidezza e solitudine sono intimamente associate:

Chi la timidezza abbia incontrato in passato sulla propria strada o ancora la provi come il primo giorno, seppur nel mutar della vita, è più abituato di altri a confrontarsi con le necessità e le circostanze della solitudine. A non temerle, anzi a desiderarle. A renderle parte accetta e integrante, ineliminabile, della propria storia.

Chi la solitudine prediliga o l’abbia eletta a costume e condotta, non può non essersi incontrato con la timidezza, che invoglia e abitua a evitare la gente e ad appartarsi. Avendo scelto se stesso per compagno o compagna ideali, in appagante e intima amicizia. Non più disposto a barattare la propria libertà di andare e venire a proprio piacimento. Secondo un estro che non disdegna del tutto il ricomparire in pubblico, lesinando le frequentazioni.
p. 33

Le emozioni derivanti da entrambe, pur non coincidenti del tutto, costituiscono ciò che in questo libro si è scelto di chiamare “sentire schivo”. Non esauribile in un istante, bensì frequentato da chiunque nutra una naturale propensione per scelte di allontanamento, radicali o discrete, dai propri simili.

Il sentire schivo cercato dona intensi momenti di serenità o di vigorosa concentrazione a coloro che avvertuno istintivamente tale richiamo e che sono disponibili, quasi in una autodisciplina morale, a educarsi a esso. Più disponibili di altri a soffermarsi a ricordare; a riflettere sulla propria storia, a ragionare su di sé. Senza alcun altro intento che non sia provarne il più personale diletto. Cui risonanze di natura etica, non sono certo estranee; poiché quanto ha il potere di rafforzare il senso dell’io, l’esplorazione della propria interiorità, genera ritorni inaspettati e più convinti. Questi spazi, in cui pur non ritenendoci timidi lo diventiamo prendendo le distanze, schivando i mondi abituali, andando a cercare la solitudine, sono dunque (e da gran tempo) quanto di più propizio per l’introspezione, la scrittura, la preghiera, la contemplazione. Tutti motivi che concorrono alla nostra, interminabile, formazione invisibile, segreta, attraversata da reversibilità preziose e da meno tenaci resistenze al cambiamento.
p. 37

La timidezza promuove la solitudine perché essa, intesa in senso proprio, la postula come bisogno:

Si diventa timidi: non solo – alcuni affermano – si nasce tali, per violenze subite, per soprusi e traumi pressoché inguaribili. Ma, in tali casi gravi, occorrerebbe trovare altre parole invece di continuare ad agitare lo spettro della timidezza per designare ciò che, ben oltre un disturbo psichico indotto, costituisce un’ipersensibilità non necessariamente devastata da una ferita. La timidezza è ben più di una condotta difensiva, una sorta di sindrome autoprotettiva: è una figura dell’umano, una voglia di vivere dalle caratteristiche peculiari. Si divincola se tentiamo di ridurla a una categoria clinica; accetta semmai di restare una evocazione letteraria. Essa va riletta in ogni storia di vita, poiché non vi è esistenza individuale che non la conosca, pur in forme leggere, episodiche, mutevoli nel tempo. Nella facoltà riconosciuta di divenire quello che gli schivi non possono che essere: i latori di una sensibilità eccessiva. In sicura controtendenza, se le consuetudini dominanti, i costumi accettati continueranno sempre (come pare) a esaltare aggressività e rivalità sleali. A niente che non sia, più che “normale”. Questo modo di essere, che non cessa di apparire segno di follia, di pessimismo, di depressione – senza gli eccessi dolorosi possibili – sempre più arriva a consolidarsi mutandosi in stile esistenziale duraturo. Fino ad attraversare tutte le età, in declinazioni pur differenti, che rendono la solitudine il motivo conduttore, e ispiratore, la risorsa emotiva e intellettuale, di tutta una vita. Chi la timidezza ha sofferto e ha patito, ingessato nel silenzio che non riusciva a infrangere, di questo stato trascorso può avere un ricordo sofferto o viceversa consolante, ma quale sia la sua storia, quali i conti non del tutto risolti, da essa avrà imparato. Ne avrà ormai meno timore, potrà considerarla finalmente un vantaggio e un antidoto per disavventure peggiori. Quasi un tirocinio di cui non ci si può stancare, un’educazione alla tenacia del carattere, un dischiudersi di altre sensibilità. Del tutto ignote ai presuntuosi, ai sicuri di sé, agli arroganti. A patto che non sia caduto nella trappola di rivaleggiare con i loro modi, disperdendo le qualità insostituibili del sentimento e delle virtù della timidezza.
pp. 38-39

Nel nostro mondo:

La comunità dispersa dei “puri di cuore”, dei “nobili d’animo”, dei “beati” in spirito, degli “incapaci di vivere”, è sempre più una minoranza in pericolo che rischia l’estinzione, per forze impari e troppo malthusiane prepotenze.

E, invece, la timidezza quando da sentimento si rende tenacia morale, ecco che ci mostra altri suoi volti:

– è alle radici delle filosofie dedite alla meditazione interiore;
– è il requisito che muove la ricerca individuale di un dio nascosto nei luoghi del silenzio o di una natura priva di ogni eco trascendente;
– è la condizione senza la quale la preghiera – credente o miscredente -, la meditazione, il piacere di contemplare non potrebbero darsi;
– è la necessaria pietra dello scandalo in un universo dove il male assoluto, disordinato e inestinguibile, è la violenz
a che ogni timido teme per sé e per tutti.

Perciò la più vera, originaria, natura della timidezza è una pulsione di vita e non di morte. Tanto più perché la mente timida ne è costantemente abitata, così pervasa dal sentimento della fine, della efemericità del tutto. Dalla assillante presenza dell’”esperienza dell’Insolubile”.

La tristezza che i timidi-solitari frequentano tanto spesso, nelle declinazioni della malinconia, della nostalgia, della tragicità del proprio essere apparsi al mondo, trovano come loro riscatto, la tensione e la ripetuta tentazione spasmodica di vivere fino in fondo tali umori. In quanto momenti della vita da conoscere senza rimuoverli da sé o rifuggirli, in quanto sottrarrebbero tempo (e denaro) da spendere altrimenti, da bruciare in istanti che la lentezza proverbiale di chi insegue la solitudine non può sopportare. Poiché i timidi ben hanno imparato a riconoscerne la funesta presenza, sul ciglio di quel nulla che li ha sempre attratti. Nelle sembianze di un timoroso accostarsi agli altri, in quel senso di vuoto e di vanità di ogni cosa innanzitutto. Nella paura di esporsi troppo, di alzare la voce o soltanto di parlare in pubblico. Chi è nato nel sentire timido conosce assai bene l’esitazione, la fragilità, il dubbio e non si rende conto sovente invece di quanta sapienza per la preparazione al vivere, per la sussistenza quotidiana, si celi in tutto ciò. Però ha coltivato in sé, in questa esorbitante titubanza, la volontà tenace di non soccombere alle prepotenze del mondo e, per di più, senza mostrare alcuna invidia per i prepotenti. Semmai, molta ironia e dileggio nei loro confronti. Il compito dei timidi, che tali tengano a restare – segno inequivocabile di uno scatto verso la meta ancora ambita della maturità alla quale nel loro incedere incerto sono più vicini di altri – può consistere nel tentare di educare alla vita schiva coloro che la rifuggano. La cui ragion d’essere, lo si vuol ribadire, non è certo ascrivibile, o riducibile, a un tipo umano e tanto meno psicologico. E piuttosto una qualità dell’intelletto, oltre che un’esperienza emotiva; la quale da sempre disprezzata dagli spavaldi ha informato la storia del pensiero umano cui necessita la solitudine per germinare e poi tornare al mondo.
p. 51

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